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Frate Giuseppe Feola, traduttore in poesia, di distici latini

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Il Prof. Antonio Troisi, da Magliano Nuovo, ci iha gelntilmente nviato delle notizie sul padre Giuseppe Feola che qui pubblichiamo:

Molte cose si conoscono intorno agli ultimi momenti della vita di frate Giuseppe da Campora. Lo storico Mazziotti, in particolare, nella sua opera "La reazione borbonica nel regno di Napoli", illustrò la tragica fine del frate cappuccino, avvenuta la sera del 3 giugno 1863, nella piazza di Camora.

I fatti sono anche ricapitolati nella sentenza del procuratore generale della gran corte criminale, relativa alla condanna degli affiliati alla banda Tardìo, colonello del disciolto esercito borbonico.Ma gli studiosi ignorano, per carenza di documentazione, altri fatti, altre vicende, non solo patriottiche, ma anche culturali che contraddistinsero la missione di questo nobile flglio di una terra di uomini di fede e di impegno severo nell'esercizio di ogni funzione. Nella terra di Castelsaraceno, ove soggiornò alcuni anni , frate Giuseppe non solo fondò la sezione liberale che aggregava Moliterno, Saponara e Viaggiano nella lotta antiborbonica alla vigilia dell'insurrezione del 1860, ma si distinse anche per la traduzione di allcuni versi dal latino, che circolavano nell'ambiente. Non si è mai saputo bene da dove questi versi fossero stati presi, ma erano ben conosciuti, perchè esprimevano la sofferenza del popolo di Castelsaraceno, per lungo tempo vessato, negli ultimi secoli, da signori prepotenti e fiscali, da principi e duchi tracotanti e persino dall'imperatore Carlo V (nel corso del 1500). I versi tramandati erano i seguenti:

 

 

Quot dedit immanes dominos,

sors barbara,

fecit vulnera moerenti

tanta inhonesta mihi.

O mores veteres, o tempora,

quando tenebant me frates

placida sub ditione pii.

Di questi versi frate Giuseppe diede una sua interpretazione mettendoli in rima italiana e lasciandone traccia perenne negli annali di quel comune.

Egli infatti tradusse nel modo seguente:

Quanti padroni

mi diè barbara sorte

tutti mi diede ad oltraggi

ad infamia, a morte, addio prisca moral,

bei giorni aviti

quando mi ebbi a signori i cenobiti.

Dalla traduzione emerge chiaramente la nostalgia dell'autore per un  tempo in cui il governo della comunità era gestito dai religiosi, nostalgia che padre Giuseppe condivide rendendola palpabile persino nella rima che riesce a creare. Il senso della traduzione dimostra, inoltre, come il frate cappuccino abbia precisa cognizione degli eventi dei secoli XIII e XIV duranti i quali l'amministrazione religiosa e civile del paese era stata tenuta dalla badia di San Michele arcangelo, con esiti di progresso e di pace.